Noi non viviamo nella realtà.
O meglio, noi viviamo immersi in un “altro da noi” che non possiamo definire né conoscere.
Nessuno di noi, infatti, può illudersi di conoscere la realtà. O forse sì, ma soltanto quando il nostro rapporto con essa non cerca di oltrepassare quel velo sottilissimo dell’esperienza quotidiana. Se invece vogliamo andare oltre, nello spazio e nel tempo, appena cerchiamo di superare quel bozzolo che ci avvolge, ogni certezza si dissolve. Quale che sia il modo con il quale procediamo e gli strumenti con i quali laceriamo quella immediata placenta sensoriale che ci avvolge, subito la realtà ( ah, la “realtà vera”!) diventa sostanzialmente inconoscibile. Ne possiamo raccogliere forse qualche frammento, particelle sparse, brandelli irregolari che presto svaniscono come sogni o chimere.
Al contrario noi viviamo immersi in rappresentazioni della realtà. Esistono varie modalità di rappresentazione della realtà, iconografiche, concettuali, matematiche, strumentali… Quella dominante appare però quella narrativa. Dalla nascita alla morte viviamo immersi nelle narrazioni. Narrazioni storiche, giuridiche, politiche, culturali, economiche, ideologiche, religiose… Narrazioni molto concrete o del tutto fantastiche. E le nostre visioni del mondo – le costruzioni mentali che ci facciamo sua natura e sulla sostanza della realtà attorno a noi – sono frutto soprattutto del reticolo sempre più complesso e articolato delle narrazioni ( e delle auto-narrazioni ) in cui siamo cresciuti.
Noi quindi non viviamo nella realtà ma nelle sue narrazioni. In quelle altrui e in quelle nostre. E a furia di narrazioni della realtà noi ci illudiamo di conoscere una gran parte della realtà…
Ma qui sorge un problema. Se accettiamo l’idea di non avere più una “realtà” oggettiva e conoscibile attorno a noi ma soltanto una serie infinita di sue rappresentazioni, che ne è della “verità” della realtà o delle sue narrazioni? Dobbiamo dubitare di tutto? Ogni cosa può essere inganno, illusione, apparenza?
( a suivre…)